giovedì 21 ottobre 2010

La pubblica felicità

muratoripubblicafelicita1In uno dei suoi ultimi contributi, l'articolo Abbondanza frugale  pubblicato su Il Manifesto del 20 settembre 2010, Serge Latouche, noto teorico della decrescita, nel citare "Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti)", ci ricorda come "tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo". Lo stesso Luigino Bruni, nel suo Si può essere felici da soli? Su eudaimonia, economia e dono. Intervista a Salvatore Natoli, fa riferimento, nell'introduzione, alla tradizione napoletana citando Muratori, Palmieri e Genovesi.

Non è questo il luogo, né l'obiettivo di questo post, per affrontare i termini del dibattito sul concetto di decrescita. Un dibattito contraddistinto spesso da entusiastiche, quanto a volte superficiali, adesioni alle proposte pratico-politiche ad esso legate o a critiche a volte pregiudiziali, svolte spesso, almeno in una certa sinistra di impostazione marxiana, partendo dall'estraneità del concetto alla strumentazione analitica del marxismo stesso. Né di dar conto dei pur interessanti tentativi di coniugare istanze di decrescita e utilizzo del marxismo, come quello di Badiale e Buontempelli nel loro Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx.

Più interessante appare l'indagine su quella felicità pubblica di illuministica memoria, concetto da indagare scientificamente e presupposto concettuale per costruire, nelle mutate condizioni generali dell'attuale epoca storica, la società degli uomini e delle donne integrali. Una società nella quale l'antagonismo tra la dimensione pubblica e quella privata lasci spazio a una dialettica armonica tra essi, poiché, per dirla con Genovesi, "È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri".  Quel che è in gioco è la possibilità di far subentrare alla società borghese,"con le sue classi e le sue contrapposizioni di classe", quella che Marx definisce "un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti", composta da uomini e donne coscienti e padroni del proprio destino. Avanziamo quindi lungo la strada della felicità pubblica e collettiva, poiché, per dirla col filosofo Remo Bodei, "essere felici da soli è come danzare in un lazzaretto o sulla tolda del Titanic".

martedì 24 febbraio 2009

Un partito, non una setta.

Il Latinoamerica si conferma sempre più uno dei luoghi della Terra più interessanti in questo momento. Non di facile entusiasmo per le pur brillanti affermazioni dei processi politici in atto si tratta. Da tempo siamo alla ricerca di elementi che promanano da quelle esperienze, infatti, in grado di essere generalizzati. Elementi universali dell'esperienza. Il terreno della riflessione politica latinoamericana ne offre alcuni di grande consistenza, utili forse a rianimare l'asfittico livello della discussione europea e italiana in particolare. Uno dei temi sui quali, prima nella pratica e poi nella teoria, la politica rivoluzionaria latinoamericana si sta confrontando, molto proficuamente, è quello del settarismo.

Nella quinta stesura del  MANUAL DE ÉTICA SOCIALISTA. Apuntes para contribuir a la preparación colectiva de un Código Ético de la Revolución Socialista Bolivariana, a cura del Colectivo Gramsci del Venezuela, al capitolo 39, leggiamo:

"Il settarismo è un grave male che colpisce pericolosamente la vita rivoluzionaria. Lottare il settarismo attraverso l’autoformazione personale, la critica e l’auto-critica, è il modo migliore per superarlo ed eliminarlo dal nostro corpo sociale e dalla nostra pratica politica.

Il settarismo si supera solo mediante uno sforzo profondo di comprensione della realtà della vita e dei compiti relativi alla trasformazione rivoluzionaria in tutta la sua ricchezza e complessità.

Il settarismo è il risultato di una visione e comprensione limitata e impoverita della realtà e della condizione umana. È escludente, divide, segrega, schematizza, è parziale, maldestro, limitato, impoverisce la realtà, la vita, le relazioni, distrugge possibilità potenziali di relazioni feconde nell’esistenza quotidiana.

Il settario è al tempo stesso vittima e carnefice della degenerazione, della deformazione ideologica della realtà, intendendo ideologia nel senso marxista: una serie di percezioni e di idee che in relazione ad una realtà non la chiarisce per trasformarla, ma che copre e giustifica ciò che ha costruito nel suo immaginario; che consente alle persone di dire una cosa e di farne un’altra, di apparire diversi da qual che sono.

Il pensiero settario usa strumenti teorici e metodologici semplificati all’estremo, disarticolati, che, in alleanza funesta con la burocrazia, si convertono in armi rigide e oppressive, provocando a volte danni irreversibili al movimento rivoluzionario.

La parola setta non è una semplice descrizione, “ha un significato sociologico e storico preciso: una setta è un gruppo, o un individuo, che agisce come tale, che erge come assoluto un solo lato, aspetto o fase del movimento dal quale è nato, fa di esso la verità della dottrina, la verità senza altro, le subordina tutto il resto e per mantenere la sua «fedeltà» a questo aspetto, si separa radicalmente dal mondo e vive, a partire da quel momento, in un «suo mondo a parte»”.

[…]

L’invocazione della fraseologia rivoluzionaria consente ai settari di pensare e presentarsi come altra cosa, completamente diversa da ciò che sono in realtà, seppellitori della verità e della vitalità del pensiero rivoluzionario, coloro che deprimono la lotta per la trasformazione della società, per l’emancipazione della vita. Sono depredatori ideologici.

Il settarismo isola o qualifica come nemico tutto ciò che o colui che non si adegua alla costruzione rigida che si è fatta della realtà. Molesta, persegue, accusa, manipola con la paura, estorce, distrugge. L’azione del settario con potere burocratico conduce al fascismo, semplicemente. È profondamente reazionario, antidemocratico, escludente, non crede nella partecipazione, diffida di chiunque non la pensi come lui.

Per la salute del socialismo è necessario combattere senza tregua il settarismo, e dare impulso alla più ampia e profonda comprensione umana".

Sforzo davvero inutile sarebbe aggiungere altro a tale precisa, approfondita, analisi del fenomeno del settarismo. Solo una chiosa per affermare con forza che il partito che abbiamo in mente non solo ricorderà tali parole ma, soprattutto, creerà le condizioni organizzative ed etiche per praticarle nella sua vita quotidiana.

domenica 8 febbraio 2009

Umano, troppo umano: transumano?

Può avere un senso, a fronte dell'attuale condizione umana, caratterizzata, entro certi limiti, addirittura dall'acuirsi di problemi quali la miseria materiale, quella spirituale, l'aumento dell'alienazione, il regresso verso pulsioni primordiali attraverso le quali rappresentarsi e rappresentare l'attuale crisi della società, può avere un senso parlare di superamento della condizione umana, così come conosciuta sin qui, da un punto di vista biopsichico? E, di più, questo eventuale superamento spianerebbe la strada verso il raggiungimento di una maggiore felicità?

Questi interrogativi a prima vista possono apparire quanto meno stravaganti, eppure, dal nostro peculiare punto di vista, anch'essi rimandano al problema che ci siamo posti, alle strategie per costruire la felicità umana. Sarebbe qui lungo dare una sintesi del dibattito che si sta sviluppando attorno al concetto di transumanesimo, tuttavia basti per ora, almeno per inquadrare il tema, la sintetica definizione datane per l'enciclopedia di MondOperaio da Riccardo Campa: "Il termine transumanesimo indica una dottrina filosofica appartenente alla famiglia delle ideologie progressiste. Gli intellettuali transumanisti elaborano, studiano o promuovono le tecnologie finalizzate al superamento dei limiti umani. Analizzano i trend, le dimensioni psicologiche, le implicazioni etiche e l’impatto sociale di tali tecnologie, ponendo in luce soprattutto gli aspetti positivi dello sviluppo scientifico, ma senza sottovalutarne i potenziali pericoli. Con lo stesso termine si indica il movimento intellettuale e culturale che, facendo riferimento a tale filosofia, ritiene possibile e desiderabile l’alterazione in senso migliorativo della condizione umana. Per ‘miglioramento’ si intende la limitazione e, possibilmente, l’eliminazione di processi naturali come l’invecchiamento, la malattia e la morte, nonché l’aumento delle capacità intellettuali, fisiche e psicologiche dell’uomo" (ulisse.sissa.it/biblioteca/saggio/2007/Ubib070309s001/?searchterm=campa).

Ma perché ciò dovrebbe avere attinenza col nostro discorso sulla felicità? Per il motivo semplice che il transumanesimo pone il problema di una rottura del paradigma scientifico, così come finora sedimentatosi, con la stessa carica dirompente con la quale i filosofi della felicità sovvertono le mortifere ideologie dell'afflizione dell'uomo. Come continua Campa: "Finora, due etiche della scienza si sono confrontate sul palcoscenico della storia, quella degli utilitaristi e quella dei razionalisti. Per gli utilitaristi la scienza ha senso soltanto se è utile all’uomo. Questa visione è ben rappresentata dal detto baconiano «sapere è potere». I razionalisti ritengono invece che la scienza sia un bene in sé. Questa visione, che trova testimonianze già al tempo dei Presocratici, può essere sintetizzata nella formula: «sapere è dovere». Ora siamo giunti ad una visione nuova che sintetizza gli insegnamenti dell’utilitarismo e del razionalismo ad un livello più alto. Con il transumanesimo, l’uomo giunge alla consapevolezza che: «potere è sapere»".

Cambio di paradigma scientifico dunque, aria nuova e fresca, idee delle quali discutere. Il mulino del Partito della Felicità accoglie in continuazione, tra le sue pale, chiare, fresche e dolci acque e inizia a far girare la sua ruota, per ora lentamente certo, cionondimeno con calmo vigore.

martedì 27 gennaio 2009

Ancora sull'organizzazione. E sull'etica.

C'è la necessità di ritornare, e tante altre volte lo si farà, sul grande tema dell'organizzazione. Questa volta tentando di approfondire una questione che nel post precedente avevamo tratteggiato superficialmente, ovvero la dialettica tra i mezzi e i fini. Questo ci consentirà di meglio comprendere l'assoluta necessità che la prossima ondata rivoluzionaria si caratterizzi nella sua pratica, il che significa anche nella sua teoria, in maniera da rompere la separazione tra i due termini della dialettica sopra citata.

Per quanto possa sembrare astratto il tema, in realtà esso assume riflessi molto concreti. Costruire forme organizzative tali da superare la divaricazione tra mezzi e fini significa, innanzitutto, sforzarsi di offrire a quei fini strumenti più adatti alla loro realizzazione, immaginare possibilità nuove e diverse, grazie alle quali superare il fallimento del passato e iniziare a sconfiggere l'inconcludenza del presente.

Si tratta di inoculare il germe dell'etica nel corpo delle future forme organizzative rivoluzionarie. E ciò non per imbellettare la postura della militanza, ma per ragioni pratiche.

Così scrive Ezequiel Adamovky nel suo La politica dell'autonomia: "In generale, sia in pratica che in teoria, l'atteggiamento della sinistra verso l'etica - cioè il principio che deve orientarci alle buone azioni permettendoci di distingere queste ultime da quelle cattive - consiste nel considerarla una questione meramente "epistemologica". In altre parole le azioni politiche sono considerate "buone" se corrispondono ad una "verità" nota in anticipo. La questione di ciò che è eticamente bene o male è così ridotta al problema di una "linea" politica corretta o non corretta. In questo modo la sinistra spesso finisce con il rigettare implicitamente ogni etica dell'aiuto dell'altro (e voglio dire l'altro concreto, i nostri simili); invece la sinistra la rimpiazza con una certa ideologia-verità che si vuole rappresentante di un altro "astratto" ("l'Umanità"). Gli effetti concreti di questa assenza dell'etica si possono vedere nella nostra pratica concreta in casi innumerevoli in cui degli attivisti politici, altrimenti del tutto benintenzionati, manipolano e infliggono violenza ad altri in nome della "verità". (Non c'è da sorprendersi poi se la gente comune preferisce tenersene alla larga). Questo atteggiamento non è soltanto sbagliato per la sua mancanza di etica, ma anche perché è spesso inconsciamente elitista e impedisce una reale cooperazione tra uguali. Se pensate di possedere la verità non starete a "perdere" tempo ascoltando gli altri, né sarete disposti a negoziare sul consenso. È questa la ragione per cui una vera politica d'emancipazione deve basarsi su una ferma e radicale etica dell'uguaglianza e della responsabilità nei confronti degli altri. Dobbiamo ancora fare molta strada in questo senso se vogliamo creare, diffondere ed incarnare una nuova etica. Fortunatamente molti movimenti stanno già lavorando in questa direzione. Lo slogan degli zapatisti "camminiamo alla velocità del più lento" non è altro che il capovolgimento della relazione tra verità ed etica[...]". Ci sentiamo di condividere l'importante sollecitazione.

giovedì 13 novembre 2008

Pars (la parte). Quale partito?

Una delle tematiche delle quali ci siamo ripromessi di trattare è quella del partito, o delle forme organizzative più adatte a raccogliere, concentrare, indirizzare e dirigere l’esercito che avrà il compito di sconfiggere le forze dell’infelicità. Ognuno cercherà, a seconda dei tratti di strada politica percorsa nel secolo scorso, nel pozzo della sua memoria le occasioni nelle quali il tema ha squassato la propria vicenda e, tentando di nobilitare la propria militanza, sarà ben disposto a criticare questa o quella forma-partito. Quasi nessuno dei militanti d’oggidì sarà disposto ad ammettere che nessuna delle soluzioni proposte nel XX secolo, da quelle centralistico-democratiche proprie della vulgata leniniana-staliniana a quelle che negavano tout court la necessità per il proletariato di organizzarsi in partito al fine di disintegrare il dominio borghese, ha funzionato appieno. A meno di ammettere l’inesistenza di una dialettica tra mezzi (il partito) e fini (la costruzione del socialismo-comunismo).

Per uno dei paradossi della storia il crollo dei paesi socialisti, e la trasformazione finale dei partiti comunisti in Occidente in partiti democratici, ha prodotto, dopo un primo momento di sbandamento, la proliferazione di innumerevoli formazioni politiche che si autodefiniscono a vario titolo, e con varie sigle, “partiti comunisti”. Paradosso da un lato, segno dei tempi dall’altro. A differenza del secolo scorso, infatti, tali partiti hanno il notevole difetto, senza peraltro all’oggi mostrare evidenti segni di pregio, di nascere non dal “fuoco della lotta”, come usava dire, ma dalla testa di alcuni. Mossi certo da lodevoli intenti e bruciati dal sacro fuoco del desiderio di emancipare l’umanità. Tutti conoscono il mito della nascita di Atena, venuta fuori dalla testa del padre Zeus. In poche parole, in assenza di una significativa ripresa della lotta cosciente e organizzata per emancipare l’umanità, edificare la felicità diciamo noi, qualche bell’anima pretende di aver fondato il partito adatto a questo scopo. Ma il partito non nasce per partenogenesi, né è possibile immaginare un partito (il mezzo) che nel DNA non abbia già inscritti i suoi fini (la felicità).

Agli uomini del secolo scorso, che già vediamo ghignare al solo leggere le nostre considerazioni, regaliamo ancora una volta una citazione: “Noi dobbiamo creare una situazione politica vivace, caratterizzata insieme dal centralismo e dalla democrazia, dalla disciplina e dalla libertà, dall’unità delle volontà e dalla felicità di ciascun individuo”.

O almeno così riteneva Mao Tse-tung nella proposta di revisione dello Statuto del Partito comunista cinese, sottomessa a sua richiesta alla dodicesima sessione del Comitato centrale tenutasi dal 13 al 31 ottobre 1968.

domenica 19 ottobre 2008

Il lavoro rende liberi?

Le considerazioni sulla possibilità di una critica etica al capitalismo, la sottolineatura della negazione che il capitale compie nei confronti del lavoro vivo, oggetto del post precedente, aprono la strada ad ulteriori riflessioni. Partiamo da un assunto: la dialettica pervasiva dell'interezza delle relazioni sociali attualmente dominanti è, e resta, quella capitale/lavoro, al di là dei generosi tentativi di superarla immaginando e creando luoghi interstiziali ove farne cessare la vigenza.

La critica al primo polo della contraddizione non può dirsi compiuta se non prefigurando la trasformazione del secondo. Il lavoro umano deve liberarsi dalle catene che il capitale gli impone, negare il proprio carattere astratto, gridare la propria vita, imporre il proprio dominio creatore. Solo lungo questa traiettoria sarà possibile eliminare l'equivoco, spesso artatamente propagandato dallo stesso capitale, dell'esistenza del tempo libero. Nella gigantesca Matrix capitalistica, che avviluppa il pianeta e quelli che lo abitano, non esiste realmente tempo libero dalla contraddizione capitale/lavoro, e non solo perché il primo tende ad occupare tutto il tempo sic et simpliciter, piegandolo al dominio della propria valorizzazione, ma soprattutto perché il lavoro, nella società contemporanea, non ha senso per l'essere umano ma solo per il capitale. Esso è privo di senso, benché tutti ne comprendano la dittatura del significato.

Sintetizza bene la portata del problema Ricardo Antunes che scrive "[...] il secolo che sta iniziando esige che si rifletta anche sul futuro del lavoro ovvero sul lavoro del futuro. A tal proposito affiora una questione che, a nostro avviso, è essenziale e che ci limitiamo soltanto a sintetizzare: una vita piena di senso fuori del lavoro presuppone una vita dotata di senso dentro il lavoro. Non è possibile far convivere lavoro privo di senso con un tempo veramente libero. Una vita sprovvista di senso nel lavoro è incompatibile con una vita piena di senso fuori del lavoro. In un certo senso, la sfera esterna al lavoro sarà contaminata dalla disaffezione che si concretizza nella vita lavorativa. Una vita piena di senso in tutte le sfere dell’essere sociale, potrà essere realizzata soltanto attraverso la demolizione delle barriere esistenti tra il tempo di lavoro ed il tempo di non-lavoro, di modo che, a partire da una attività vitale piena di senso, autodeterminata, aldilà dell’attuale divisione gerarchica che subordina il lavoro al capitale e, pertanto, su basi interamente nuove, possa svilupparsi una nuova socialità, dove l’etica, l’arte, la filosofia, il tempo veramente libero e l’ozio, in conformità con le aspirazioni più autentiche, suscitate dai continui stimoli della vita quotidiana, rendano possibile la gestione di forme interamente nuove di socialità, ove la libertà e la necessità si realizzano reciprocamente. Se il lavoro si arricchisce di senso, sarà anche (e decisivamente) grazie all’arte, alla poesia, alla pittura, alla letteratura, alla musica, al tempo libero, all’ozio che l’essere sociale potrà umanizzarsi ed emanciparsi in un senso più profondo" (http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=515).

La possibilità storica di superare l'attuale barriera che divide il lavoro alienato e il tempo del non-lavoro, suppostamente libero, rimanda pur sempre alla necessità di una rivoluzione degli attuali rapporti sociali.  L'idea-forza attorno alla quale costruire il movimento rivoluzionario del XXI secolo dovrà sciogliere il nodo della liberazione del lavoro.  Nella nuova società il lavoro necessario sarà tendenzialmente dotato di senso poiché in rapporto equilibrato con il tempo libero dal lavoro, e soprattutto perché entrambi saranno determinati dalla libera e consapevole scelta della comunità umana, emancipati quindi dal metabolismo pantoclasta del capitale. Nel nuovo rinascimento sarà possibile allora leggere statistiche che a fine anno ci diranno sì quanti milioni di tonnellate di grano o di acciaio sono stati prodotti ma forse anche, poiché non di solo pane vive l'uomo, quante poesie, o quanti quadri, o quante sinfonie, gli stessi uomini del grano e dell'acciaio hanno creato.

sabato 5 luglio 2008

Una critica etica dell'economia politica?

Riprendendo un'importante sollecitazione dell'amico fraterno, nonché brillante scrittore esordiente, Rosario Zanni, ci accingiamo con questo post ad affrontare una questione cruciale: è possibile rinvenire nella critica marxiana dell'economia politica borghese un fondamento etico? Posta in altri termini la questione è: il capitalismo, con il meccanismo di base dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, è di per sé eticamente censurabile?

Senza volere entrare nello specifico dibattito filosofico sulle categorie della morale e dell'etica, al quale necessariamente rimandiamo per i doverosi approfondimenti, ci preme qui avviare una riflessione che speriamo foriera di ulteriori avanzamenti nel processo avviato di rilanciare un'idea e un percorso di liberazione. Un percorso che non può, non vuole e non deve essere caratterizzato da patetiche difese di ufficio di quanto, nella teoria e nella pratica, ha determinato, dal punto di vista della soggettività storica, l'attuale situazione di sfacelo e impasse, almeno guardando al "piccolo mondo antico" della militanza politica di sinistra nel nostro paese. In questo senso il precedente post sulle questioni dell'etica e del fondamento etico del percorso di liberazione dell'uomo trova nella riflessione sulla possibilità di rinvenire, già in Marx, l'opportunità di criticare eticamente lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo un suo primo approccio concreto.

Il filosofo argentino e teologo della liberazione Enrique Dussel si occupa di questi temi da moltissimi anni. Nel suo Hacia un Marx desconocido. Un comentario de los Manuscritos del 61-63, edito per la prima volta nel 1988 e pubblicato in Italia col titolo "Un Marx sconosciuto" nel 1999 da Manifestolibri, egli afferma: "In questi Manoscritti abbiamo incontrato, per la prima volta, la denominazione (non il concetto) di 'capitale variabile'. Vale a dire la parte componente il primitivo lavoro oggettivato passato nel denaro che si è riprodotto come V (capitale variabile), però è aumentato come p (plusvalore). Il denaro che ha pagato il prezzo della capacità di lavoro nella sua riproduzione ha 'dato' valore dal-nulla del capitale: il lavoro 'vivo' (nella sua reale esteriorità) ha creato valore nuovo per il capitale senza essere pagato per il suo pluslavoro. In questo consiste la perversità (la malvagità etica) dell'essenza del capitale".

Nella sottomissione, assimilazione, incorporazione, totalizzazione del lavoro vivo da parte del capitale si compie sotto i nostri occhi il misfatto e ci abbaglia con la forza della mistificazione. Nell'atto in cui il capitale nega al lavoro vivo la sua esteriorità (rispetto al capitale stesso), lo sottomette e lo trasforma in lavoro salariato, la sua perversità etica si dispiega pienamente. "Un uomo altro, libero, cosciente, autonomo, viene trasformato in una cosa, uno strumento, una mediazione del capitale" , dice Dussel.

Se si approfondisce questo tipo di approccio ci si accorgerà che è possibile costruire tale critica etica all'economia politica per le categorie essenziali di quest'ultima. Sarà possibile allora, per dirla ancora con Dussel, "vedere la continuità tra persona umana del lavoratore, lavoro vivo, capacità di lavoro, salario, plusvalore come furto di vita umana, profitto medio come una certa distribuzione di questo furto di vita umana, determinazione del prezzo di costo[...]. Ossia che Marx può misurare eticamente, o dal lavoro umano, la totalità delle categorie e la realtà economica capitalista, e, partanto, può fare una critica etica di essa (se per 'etica' si intende, giustamente, la critica alla morale stabilita e dominante del capitale)".

sabato 21 giugno 2008

Per una nuova etica: appunti sulla verità

Il 6 luglio 1415 veniva arso sul rogo il teologo ceco Jan Hus. Uno dei cardini della sua riflessione è rappresentato dal concetto di verità. Non è qui il luogo, naturalmente, per dar conto della complessità del personaggio e del pensiero da essi sviluppato, tuttavia l'idea hussita di verità, e la sua pratica, restano, forse anche in virtù del coerente martirio sopportato, all'oggi velate di un fascino che i secoli, e la damnatio memoriae operata dai vincitori cattolici, non sono riusciti a scalfire. "Cerca la verità, ascolta la verità, apprendi la verità, ama la verità, di' la verità, attieniti alla verità, difendi la verità fino alla morte", scrive nella Spiegazione della Confessione di fede, nel 1412.

Un ottimo spunto per continuare la nostra costruzione teorica e filosofica del movimento, attraverso la collocazione sul tavolo del restauro dei frammenti di pensiero e di azione che abbiamo a disposizione, e che ci provengono dalla lunga storia della guerra tra le forze della felicità e quelle dell'infelicità. In questo processo di costruzione un elemento, destinato anch'esso a marcare la differenza  con i movimenti che, segnatamente nel secolo scorso, si sono posti l'obiettivo della liberazione umana attraverso il superamento del capitalismo è quello, appunto, della necessità di informare il processo stesso della sua dimensione etica.

L'attivista anticapitalista e storico argentino Ezequiel Adamovsky nel suo Más allá de la vieja izquierda: seis ensayos para un nuevo anticapitalismo (Buenos Aires, Prometeo, 2007) afferma: "Non ha mai smesso di sorprendermi il rifiuto viscerale che manifesta molta gente di sinistra riguardo all'etica. Innumerevoli volte ho visto compagni saltare quando, per qualche motivo, ascoltano qualcuno utilizzare un vocabolario che rimanda all'universo morale. Se per necessità devono discutere circa mancanze nel comportamento di qualcuno, chiariscono sempre che "non si tratta di una questione morale", come se parlare di cose che sono "bene" o "male" non sia proprio di alcuno di sinistra. E benché  molta gente di sinistra è tra gli esseri più altruisti, buoni e generosi che uno possa incontrare in questo mondo, alla maggioranza infastidirebbe essere considerato una persona "buona" (aggettivo che, per l'universo culturale della sinistra, suole evocare caratteristiche di "debilità"). Questa strana contraddizione nella cultura miitante si deve al fatto che la sinistra ha rigettato tutta la problematica della valorizzazione morale dei compartamenti".

A partire da queste considerazioni e sviluppando il dibattito sul tema dell'etica sarà possibile costruire un movimento, e più in là un partito, i cui aspiranti a militanti abbiano ben chiaro che non esistono più politiche dei due tempi possibili, né è possibile conformare la propria condotta all'ipocrisia ostentando pubbliche virtù che mascherano vizi privati. Tra il prima e il dopo vi è stretta relazione dialettica, coerenza non solo di obiettivi ma, soprattutto, di comportamenti. "Non quindi la felicità come un obiettivo lontano ed ultimo, metafisico, rinviato sempre nel tempo, ma come movimento attuale. La felicità, quindi, non è un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi ma è il movimento reale che trasforma lo stato di cose presente", commentava così Ciro Brescia il post "Leon Battista Alberti e il socialismo del XXI secolo". Un modo diverso di dire la stessa cosa.

 

mercoledì 11 giugno 2008

L'informazione digitalizzata: metafora del comunismo?

Slavoj Žižek, filosofo in quel di Ljubljana e assurto a fama mondiale ormai da alcuni anni, si chiede se la rivoluzione dell'informazione non sia l'esemplificazione ultima della tesi di Marx secondo la quale, ad un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive entrano in conflitto con i rapporti di produzione vigenti. Il filosofo marxista, ancor più esplicitamente, si domanda: "la prospettiva di un 'villaggio globale' non segnala la fine delle relazioni di mercato, almeno nella sfera dell'informazione digitalizzata?".

Non si vuole qui ovviamente, e non per mancanza di volontà, riassumere lo sterminato dibattito sulla filosofia del P2P, della condivisione e dello scambio gratuito che il diffondersi su scala planetaria della Rete quale strumento di comunicazione pure ha parallelamente sollevato. Tuttavia la sollecitazione di Žižek appare molto stimolante nella potenza della metafora proposta. Non che brilli di particolare originalità l'idea di leggere il web quale nuova ideale forma nella quale collocare la sperimentazione di nuovi, e superiori, rapporti tra le donne e gli uomini, poiché la stessa antica contrapposizione tra Gemeinschaft (la comunità) e Gesellschaft (la società), e quindi tra i valori fondanti di ambedue le formazioni, sembra esplicitarsi  in maniera quasi paradigmatica quando ci avventuriamo nella selva oscura dell'informazione digitalizzata, esponendoci al rischio connesso di smarrire la diritta via.

Abbiamo pochi ingredienti per la nostra torta, al momento. Una rivoluzione nel modo di elaborare e diffondere le informazioni, una comunità destinata a crescere, ma che per ora presenta ancora i tratti di una élite, che attorno a questa rivoluzione si aggrega e qualche pensatore che, osservando tale realtà, legge in questo sviluppo la metafora del superamento dei rapporti sociali capitalistici. Ancora troppo poco, come si vede. Una traccia di ragionamento dalla quale non si può prescindere tuttavia, e che riprenderemo con maggiore approfondimento. Scopriremo forse che il villaggio globale, in quanto non-luogo, in quanto processo, è animato  anch'esso dallo scontro tra le forze della felicità e quelle dell'infelicità, così come i luoghi fisici, reali. La lotta è aperta, l'esito incerto.

venerdì 6 giugno 2008

Leon Battista Alberti e il socialismo del XXI secolo

"Guardo il mondo globalizzato. È pieno di uomini costantemente in cerca di qualcosa d'altro. Sembra che corrano e invece sono fermi, in una condizione di angosciante staticità. Credono di intercettare, di interpretare il cambiamento. Stanno bene solo quando arrivano prima degli altri, e questo indipendentemente da quale sia la meta. Ma pensiamoci un attimo: in realtà non progrediscono mai. Inseguono qualcosa che è fuori da sé, un modello che non esiste e che non possono raggiungere, perché non ha radici nella propria identità: un nuovo taglio o un nuovo colore di capelli, una nuova macchina, un nuovo lavoro, un nuovo corpo, una casa nuova. Una volta conquistati, sono già vecchi. E la corsa non finisce mai. È un movimento circolare, un falso progresso che non produce nulla, perché non poggia su nulla. Il risultato è il trionfo dell'individualismo, che ha generato relazioni interpersonali in frantumi, rituali religiosi ridotti a parate carnascialesche. Un polverone di contraddizioni. Crescono l'ansia, la paura, l'inquietudine, e nascono dalla consapevolezza dell'impermanenza. Il disagio è capillare, diffuso". Ho fatto un sogno Vivere nel socialismo dell'armonia», Zygmunt Bauman, La Repubblica delle Donne , novembre 2006).

Questa la fotografia impietosa che l'arzillo vecchietto Zygmunt Bauman, uno dei più famosi sociologi viventi, consegna a tutti noi circa il mondo attuale e gli uomini e le donne che lo abitano. I più eruditi conosceranno la produzione teorica, pressoché sterminata, del signore in questione, e si saranno dilettati con le ultime produzioni in tema di amore, vita e paura liquide (http://it.wikipedia.org/wiki/Zygmunt_Bauman#Opere).

In uno scenario del genere, appunto di disagio diffuso, di crisi valoriale e di identità, la classe dominante, la borghesia imperialista diremmo con classico lessico marxista-leninista, le forze dell'infelicità, come impareremo via via a dire, non può opporre nulla che non sia la mera riperpetuazione di se stessa e dei suoi rapporti sociali, basati sull'oppressione, lo sfruttamento, l'alienazione della grande parte della specie umana. Rapporti sociali di produzione che oltretutto in questo momento storico, e forse per la prima volta, costituiscono una seria minaccia per la sopravvivenza del pianeta, e con esso di tutte le specie viventi che lo abitano.

Ma se Cartagine (il campo nemico, le forze dell'infelicità) piange, poiché incapace di risolvere la crisi nella quale ha precipitato la sua stessa civiltà, e con essa il resto dell'umanità, va aggiunto che Roma (i potenziali distruttori delle forze dell'infelicità) non ride. Troppo grave ancora il peso della sconfitta storica delle ipotesi di costruzione del socialismo sperimentate nel XX secolo, troppo frettolose le analisi che tentano di fornire spiegazioni a quella sconfitta, grottescamente d'antan le risposte politico-organizzative abbozzate per far fronte alla crisi del progetto di trasformazione sociale. Almeno qui da noi nell'opulento occidente industrializzato.

Si tratta di fare piazza pulita, in maniera netta, radicale, delle illusioni e delle proiezioni ideologiche; essere all'altezza delle sfide che il presente impone senza nostalgie e senza isterici richiami all'identità e alle simbologie. Il capitale ormai globalizzato in quanto formazione economico-sociale mette di fronte a una sfida, adesso sì!, epocale. In questa sfida il nemico, pur non mutando la propria natura, rivoluziona se
stesso incessantemente. E se è vero che la velocità della trasmissione di informazioni attraverso il cavo a fibra ottica rappresenta una metafora dell'oggi, allora ad essa certamente non può essere contrapposta né la stessa velocità, poiché non bisogna mai usare le stesse armi del nemico, come insegna storicamente la guerra asimmetrica, né però la stasi del pensiero e dell'azione, il tritovagliamento di idee e di concezioni che rappresentano solo la spazzatura della grandezza tragica del secolo scorso. Occorre ecologia della mente e spregiudicatezza, occore pulizia. "I'm cleaning, I'm cleaning my brain”, cantavano i Talking Heads nel brano Artists Only.

Nell'articolo citato Bauman parla della necessità di un nuovo socialismo e conclude affermando: "Io ce l'ho un sogno, è quello di perseguire l'ideale rinascimentale di armonia. Per Leon Battista Alberti la bellezza era strettamente connessa all'equilibrio fra le parti. La centralità dell'individuo è una risorsa. Felicità non è correre e poi fermarsi di botto. Ma saper star fermi, progredire, lentamente, consapevolmente. È una felicità solo all'apparenza più difficile da perseguire. In realtà sta lì, alla nostra portata. E riguarda tutti".

Socialismo e felicità dunque.

lunedì 14 aprile 2008

Grillo, l'antipolitica e Marx

Uno dei temi dei quali si vorrà discutere su questo blog è il rapporto tra la politica e l'antipolitica. Negli ultimi mesi, soprattutto nel nostro paese, questo tema è apparso di particolare rilievo in relazione a due fatti: da un lato la sempre più evidente disaffezione da parte del cittadino comune, medio, verso i temi e i personaggi della politica istituzionale, partitica per intendersi, dall'altro l'irrompere progressivo sulla scena massmediale del fenomeno legato a Beppe Grillo, ai suoi meetups, alle varie iniziative da essi generate, in primo luogo il cosiddetto V-Day. A conferma di ciò assistiamo al fatto che i principali esponenti del mondo politico ed istituzionale si affannano ad emettere la propria fatwa contro l'irresponsabile comportamento di quanti, Grillo in testa, diffondono uno spirito disfattista, qualunquista, anticivico.

Il tema è però, evidentemente, ben più complesso e travalica le italiche miserie, i ritornelli sulle caste, la lamentazione sulla cattiva politica. Dal nostro punto di vista esso offre, invece, l'occasione per provare ad indicare, anche qui, una strada nuova, un percorso non convenzionale. O perlomeno a sollecitare un'ulteriore riflessione.

In questa direzione appare interessante riprendere alcune considerazioni sul pensiero marxiano in tema appunto di politica e di Stato, per verificarne un possibile esito antipolitico, con la consapevolezza di muoversi su un terreno eretico dal punto di vista di moltissimi sedicenti seguaci del tedesco. Come sempre procederemo con delle tracce, dei frammenti di discorso, auspicando che esso sia ripreso ed approfondito da quanti vorranno farlo.

Torniamo a Marx. Nell'articolo Glosse marginali di critica all'articolo "Il re di Prussia e la riforma sociale, firmato: un Prussiano", pubblicato sul Vorwärts in due puntate nell'agosto del 1844, Karl Marx scrive: "L'intelletto politico è politico appunto in quanto pensa entro i limiti della politica. Quanto più esso è acuto, quanto più è vivo, tanto meno è capace di comprendere le infermità sociali". Una prima nitida indicazione del rapporto tra la sfera politica e quella sociale nella critica marxiana al pensiero borghese, come si vede.

L'ipotesi di lavoro che qui vogliamo formulare consiste nell'applicazione di tale critica anche al pensiero e all'azione che hanno ispirato i grandi movimenti di trasformazione sociale, in primis il movimento comunista internazionale, del secolo scorso. In altre parole si tratta di capire se l'intima essenza sociale della rivoluzione e della costruzione di una nuova società possa essere o meno sussunta nella sfera politica e se questo non sia stato, piuttosto, uno degli errori principali compiuti dai rivoluzionari del XX secolo.

venerdì 21 marzo 2008

Alcune prime idee sparse sulla felicità

La felicità... probabilmente uno dei concetti elaborati dall'essere umano intorno al quale la filosofia ha creato il dibattito più articolato e duraturo. Pressoché in ogni sistema filosofico, dall'antichità ad oggi, troviamo traccia di un discorso sulla felicità. Proprio su questo terreno, però, ci imbattiamo in una prima difficoltà, di metodo.

Come afferma Michel Onfray, «La storiografia rientra nel campo dell'arte della guerra. [...] come affrontare il combattimento, misurare i rapporti di forza, mettere a punto una strategia e una tattica adeguata, gestire le informazioni, tacere, passare sotto silenzio, sottolineare l'evidenza, fingere, e tutto ciò che implica scontri per poter determinare vincitore e vinto? [...] la storiografia della filosofia non sfugge a questa legge».

In questo senso la storiografia della filosofia occidentale è dominata dall'idealismo filosofico ed è quindi una storia delle idee scritta dai vincitori dell'antico duello tra materialismo ed idealismo. Una storiografia che ha per obiettivo l'esaltazione e la celebrazione delle idee dominanti. «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante», secondo Marx. Una storia delle idee, dunque, tesa ad accreditare le visioni idealistiche del mondo succedutesi nei secoli; idee, pur nelle diverse sfumature, che consentono «di giustificare il mondo così come è, e di invitare a distogliersi da quaggiù, dalla vita, da questo mondo, dalla materia del reale» (Michel Onfray).

Non stupisce allora che l'idea di felicità legata all'esistenza per così dire terrena dell'uomo e i sistemi filosofici ad essa relativi siano stati, dalla storiografia della filosofia dominante, criticati, attaccati, demonizzati, derisi, quando non del tutto oscurati e lasciati scientemente al triste destino dell'oblio.

Il riprendere un discorso sulla felicità non può prescindere, pertanto, da un'operazione di ricostruzione storiografica tesa a valorizzare, per così dire, le idee dei vinti, ovvero quanti nella storia del pensiero umano si sono schierati contro «l'odio del corpo, l'eccellenza della morte, l'odio dei desideri, dei piaceri, delle passioni, della libido, della vita», per dirla ancora con Onfray. Valorizzare, in sintesi, le idee di quanti hanno posto la felicità quale obiettivo massimo da raggiungere nell'unica vita che, fino a prova contraria, vive l'uomo, cioè quella fisica, materiale, di questo mondo.

venerdì 14 marzo 2008

Dare corso all'inizio del discorso...

Dopo il primo post, e tenendo nel debito conto i commenti ad esso inviati, cerchiamo di proseguire, tentando anche di iniziare ad indicare alcune tematiche da sviluppare, con l'obiettivo, dopo una prima sollecitazione, di imprimere un corso più ordinato alla discussione. Non si tratta, com è ovvio, di reprimere la spontaneità con la quale di volta in volta si aggiungeranno commenti e si darà vita al dibattito, né di voler predeterminare l'andamento dello stesso. Tuttavia il progetto al quale lavoriamo si incardina su alcune grandi questioni, di portata storica, che necessitano di essere analizzate utilizzando un metodo di discussione.
Il concetto di felicità, il bilancio del socialismo del XX secolo, l'analisi della forma partito, l'analisi dell'attuale forma assunta dal capitalismo globalizzato, per citarne solo alcune.
In questo senso da ora saranno presenti alcune categorie che per comodità useremo nel prosieguo del nostro discorso e che, seppure nella loro genericità, ci aiuteranno a meglio catalogare il materiale, tenendo però nel debito conto la relazione dialettica tra esse. Potremmo cominciare usando la filosofia, l'economia, la politica/l'antipolitica, il movimento/partito della felicità, il socialismo del XXI secolo. I prossimi post saranno quindi raccolti in queste categorie. Nel corso della nostra discussione, nell'avanzamento concreto del progetto, modificheremo la nostra categorizzazione, laddove si renderà necessario.

E ora alcune osservazioni di carattere pratico. In primo luogo la firma dei commenti: a meno che non ci siano particolari ragioni sarebbe preferibile firmarli anziché usare la forma anonimo. La nostra discussione libera, aperta, alla luce del sole, ne gioverebbe. In secondo luogo la loro lunghezza: sarebbe ottimale la sintesi, sempre che la materia stessa lo permetta. Bisogna vedere questo blog in prospettiva e quindi augurarsi che il numero di commenti aumenti, e con esso quindi la portata quantitativa e qualitativa della discussione. In quel caso si comprende che per l'amministratore, come anche per i partecipanti, ci sarà la necessità di leggere molti contributi. Di qui l'appello a far uso del dono della sintesi.

Buon lavoro a tutti noi.

sabato 8 marzo 2008

Per iniziare un discorso...

"La grande truffa del rock'n'roll" si titolava uno dei più famosi album dei Sex Pistols.

Il capitalismo, ormai globalizzato in quanto formazione economico-sociale, propina dal 1989 la sua grande truffa: il fallimento, irreversibile, del socialismo. E da allora i suoi guru ci hanno promesso di costruire un mondo di pace e di benessere per tutti...

Da allora, però, abbiamo visto solo il moltiplicarsi delle guerre, il progredire della devastazione ambientale, il diffondersi della fame e delle epidemie, l'aumento della disoccupazione, l'abbassamento del cosiddetto potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, coi quali ormai non si vive più, il degrado delle città, l'abbrutimento degli uomini e delle donne, la diffusione di massa della droga e dell'alcool, la tristezza stampata sui volti dei giovani, la disperazione su quelli degli anziani, la noia e l'angoscia su quelli degli adulti.

Il secolo che è appena trascorso, quello breve per dirla con Eric J. Hobsbawm, ha visto l'umanità dissanguarsi in due guerre mondiali e, tra queste due, il tentativo ambizioso, titanico per certi versi, utopistico a detta di molti, di costruire una società fondata sull'uguaglianza, la libertà, la fraternità tra uomini e donne, nella quale essi si emancipassero per sempre dalle forze "cieche" alle quali la loro esistenza era stata subordinata.

Quest'ambizione, in nome della quale tanti hanno combattuto, sono stati perseguitati, incarcerati, sono morti e alla fine hanno trionfato, si chiamava socialismo.

Il mondo è cambiato grazie a quell'esperienza, nel bene e nel male, e lo stesso capitalismo, nella sua feroce lotta per distruggerla, ha cambiato se stesso, affinando le sue tecniche di propaganda, rendendo scientifico il suo metodo di aggressione, armata e non, verso quei paesi, imparando a combattere meglio all'interno dei paesi da esso dominati il pericolo di una rivoluzione socialista.

E tuttavia questa umanità, alla quale poco meno di venti anni fa si prometteva il paradiso in terra, dimostra di avere un bisogno disperato di cambiare, di uscire dalla situazione ogni giorno più difficile nella quale si trova, di trovare una soluzione ai mille problemi che un'esistenza ormai priva di senso, nel significato sociologico del termine, le pone innanzi. E lo fa in mille modi diversi, nei paesi dominati dall'imperialismo lottando contro di esso e tentando di costruire una via di sviluppo autonoma e indipendente, nei paesi cosiddetti industrializzati attraverso le innumerevoli forme di protesta inscenate per difendere le condizioni di vita materiale e spirituali (dagli scioperi per i contratti di lavoro, alle manifestazioni contro il degrado e la ghettizzazione delle periferie, contro le avventure militari e la guerra, per i diritti civili, per il lavoro, l'ambiente, la salute).

Più o meno consapevolmente, l'umanità è alla ricerca di una strada, di una via di uscita. Più o meno consapevolmente, già ora ci sono uomini e donne che lavorano per trovarla.

Con uno sguardo al passato certo, poiché senza memoria non può esserci futuro, per imparare dagli errori, poiché non si tratta, com'è ovvio, di difendere acriticamente l'esperienza del socialismo del XX secolo.

Si tratta, infatti, di costruire il socialismo del XXI secolo. Un percorso difficile, ma al tempo stesso entusiasmante, per edificare la felicità.